L’annuncio è entrato inevitabilmente nella storia del nostro paese: “La Rai, Radiotelevisione Italiana, inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive“. A pronunciare queste poche ma solenni parole la prima annunciatrice della tv pubblica, Fulvia Colombo, che così inaugurò le trasmissioni regolari del Programma Nazionale: erano le ore 11 del 3 gennaio 1954.
Le prove tecniche erano iniziate già qualche tempo prima ma in quel giorno di 70 anni fa si apriva ufficialmente una nuova era per la radiotelevisione italiana che alle spalle poteva vantare già 30 anni di trasmissioni radiofoniche: nell’agosto 1924 nasceva l’Unione radiofonica italiana, cui lo Stato aveva affidato subito la concessione per le trasmissioni radiofoniche, ufficialmente inaugurate il 6 ottobre di quell’anno.
Insieme alla denominazione, l’azienda progenitrice dell’attuale Rai ha subito diverse trasformazioni nel corso degli anni diventando l’Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche (EIAR) nel 1927, quindi Radio Audizioni Italiane (RAI) nel 1944 e infine “Rai − Radiotelevisione Italiana” nel 1954 quando, dopo la fase di sperimentazione, partirono ufficialmente le trasmissioni che all’epoca erano un privilegio per pochi: inizialmente, infatti, la televisione era un lusso in un’Italia povera e semianalfabeta, ma proprio il piccolo schermo è diventato nel corso degli anni un elemento fondamentale della cultura, del costume e della politica italiana.
Se all’inizio poter vedere il neonato canale televisivo era una sorta di privilegio riservato a pochi fortunati, anche la programmazione era decisamente scarna: il primo programma televisivo in assoluto è stato “Arrivi e partenze“, condotto da un giovanissimo Mike Bongiorno e Armando Pizzo, seguito dalla prima edizione della “Domenica sportiva” nella stessa serata: due pilastri in un palinsesto che però, nei giorni feriali, iniziava soltanto a metà pomeriggio e terminava a tarda sera.
Se i sociologi hanno sempre riconosciuto il ruolo della Rai nella crescita culturale del paese, storici ed esperti di comunicazione amano dividere la lunga epopea della Rai in fasi: dalle origini nell’Italia della ricostruzione e del grande boom economico (1954-1974) alla fase della deregulation (dal 1975, anno della prima legge di riforma della Rai che assegnerà il controllo al Parlamento Italiano con la nascita della Commissione di Vigilanza Rai, fino al 1999) per poi passare dalla fase della cosiddetta abbondanza (agli albori del terzo millennio, nel periodo 2000-2010) e infine alla convergenza (indicativamente dal 2011 ad oggi).
Nonostante i cambiamenti politici e socioeconomici, le pressioni più o meno esplicite dei partiti e le polemiche sempre in agguato, la Rai ha saputo mantenere la sua importanza nella società italiana diventando un punto di riferimento per la formazione culturale del paese. E anche con l’avvento della televisione commerciale, dagli anni ’80 in poi, e con il successivo passaggio al digitale, la Rai ha continuato a giocare un ruolo centrale nella vita dei cittadini sapendo alternare un’anima più sbarazzina e maggiormente votata all’intrattenimento con i toni e l’autorevolezza di una informazione e di una capacità divulgativa sul pianio culturale degna di una piattaforma emanazione dello Stato Italiano.
Proprio il ruolo strategico che ha sempre rivestito nell’ambito socioculturale ed economico del paese, la Rai ha sempre dovuto fare i conti con le sfide e con gli appetiti della politica: è accaduto più volte, in passasto, e la situazione si è riproposta anche nel 2023 quando, per le presunte pressioni esercitate dai partiti di centrodestra a sostegno del Governo Meloni, la tv pubblica ha affrontato polemiche e controversie, con alcuni programmi lanciati che si sono rivelati fallimenti e cambiamenti significativi nel personale.
Un clima incandescente che sembra vivere soltanto nelle dichiarazioni polemiche – e talvolta un po rissose – del dibattito politico ma che in realtà conferma come la Rai resti centrale per l’opinione pubblica italiana: del resto, se davvero il management risente delle interferenze politiche, è evidente che ogni professionista chiamato a dirigere un’azienda così prestigiosa non abbia alcuna convenienza a fallire ma combatta la propria personale battaglia per rendere le emittenti del servizio pubblico sempre più performanti.
Ma nonostante i cambiamenti, la radiotelevisione pubblica è ancora in grado di assolvere a quella missione di servizio pubblico che le compete sin dal dna? E’ quanto cerchiamo di capire nella puntata odierna di Extra: Claudio Micalizio intervista Giorgio Simonelli, storico della televisione e professore associato di Teoria e tecniche del linguaggio giornalistico presso il Corso di Laurea in Linguaggi dei Media della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica di Milano.