La Cop 28 di Dubai, andata in scena nella capitale degli Emirati Arabi dal 30 novembre allo scorso 13 dicembre, è stata un flop o un successo?
A una settimana dalla conclusione dell’ennesimo vertice internazionale sul clima, è come sempre difficile tracciare un bilancio chiaro e condiviso sui risultati conseguiti: c’è chi era scettico già alla vigilia e giudica insufficienti gli impegni sottoscritti dai grandi della terra nella dichiarazione finale del summit e chi, al contrario, reputa un traguardo storico aver messo nero su bianco, per la prima volta, la necessità di un graduale abbandono dei combustibili fossili.
Un vero primato che, per certi versi, ha il sapore del paradosso, dal momento che è stato conseguito al termine di un’edizione della Conference of the Parties – questo il significato dell’acronimo Cop, letteralmente Conferenza delle Parti – gravata sin dalla vigilia da un comprensibile scetticismo per il conflitto di interessi incarnato dalla controversa presidenza del Sultano Ahmed Al Jaber, ministro dell’industria e della tecnologia avanzata degli Emirati Arabi Uniti ma anche capo della Compagnia petrolifera nazionale di Abu Dhabi e presidente di Masdar, società di energia rinnovabile di proprietà statale degli Emirati.
E invece, per la prima volta, il summit annuale dei paesi che hanno firmato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici ha avuto la forza di puntare il dito contro i principali responsabili dell’inquinamento del pianeta: pur essendo noto a tutti che petrolio, carbone e gas contribuiscono in modo considerevole ad aggravare la crisi climatica, mai si era riusciti a citare esplicitamente i combustibili fossili in un documento che recasse in calce la firma di 198 Paesi, tra cui grandi esportatori e grandi consumatori di queste fonti di energia.
Certo, smaltita l’euforia per un risultato insperato, la dichiarazione finale della COP28 celebrata in un petrolstato quali gli Emirati Arabi Uniti resta soprattutto una bella dichiarazione di intenti del tutto formale ma anche un punto di partenza: il documento sancisce infatti la conclusione del primo global stocktake, il processo con cui ogni cinque anni si valutano i progressi realizzati verso gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, e diventa una sorta di bussola per correggere la rotta dei Paesi membri per l’immediato futuro.
Nel paragrafo 28 del testo finale, oltre a citare i combustibili fossili, vengono elencati anche gli sforzi necessari in ambito energetico per ridurre le emissioni di gas serra in linea con l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura globale entro gli 1.5°C. La strategia prevede a grandi linee di triplicare la capacità globale delle energie rinnovabili e raddoppiare il tasso annuale di miglioramento dell’efficienza energetica entro il 2030; accelerare gli sforzi per ridurre gradualmente la produzione energetica “non abbattuta” basata sul carbone; allontanarsi dai combustibili fossili nei sistemi energetici in modo giusto, ordinato ed equo accelerando l’azione in questo decennio cruciale, per raggiungere il net zero entro il 2050 in linea con le indicazioni della scienza; spingere sull’acceleratore delle tecnologie zero o low-carbon (per esempio le rinnovabili e il nucleare): accelerare la riduzione delle emissioni di gas serra diversi dalla CO2, in particolare il metano, entro il 2030.
Obiettivi decisamente ambiziosi e già così difficili da raggiungere ma che per gli ambientalisti sono comunque insufficienti ad evitare la catastrofe ambientale: uno scenario che, a detta dei più critici, avrebbe dovuto spingere i grandi della terra a sottoscrivere subito una “phase out” più radicale, con la messa al bando precipitosa dei carburanti fossili a favore di fonti di energia più pulite. Ma sarebbe davvero possibile rinunciare subito a petrolio e carbone? E’ la domanda che Claudio Micalizio pone in questa puntata di Extra al professor Marcelo Enrique Conti, docente di management ambientale all’Università La Sapienza di Roma e tra i massimi esperti del settore a livello mondiale.